Amare la rabbia e coltivare parole indipendenti sono pratiche femministe.

Qualche giorno fa, mentre un mio collega spiegava cose, mi sono trovata ancora una volta nella difficile impresa dell’addomesticamento delle forme colorite con cui i miei pensieri desiderano manifestarsi, addomesticamento dato dalla necessità di esprimermi in modalità consona al luogo.
In questa battaglia tra educazione e sbrocco, tra noia ed ascolto, mi sono istantaneamente ricordata di non aver mai letto il saggio di Rebecca Solnit “gli uomini mi spiegano le cose”.

Leggendo la Solnit, ad un certo punto le mie riflessioni scavalcano il discorso del mansplaining e si collegano ad alcune esperienze negative vissute in ambito femminista, soprattutto nell’ultimo anno.

Solnit parla dei comportamenti che gli uomini mettono in atto e che trattengono le donne dal farsi sentire.
Le donne vengono invitate al silenzio, portate a convincersi di essere superflue, e soprattutto “che questo mondo non appartiene a loro”, “che la verità non gli appartiene, né ora né mai”. Una guerra che le colpisce a tutti i livelli, fuori casa, dentro casa, ed anche interiormente. Potremmo dire che è qualcosa di talmente radicato che influisce in ogni relazione da quella con gli altri a quella con se stesse.
L’autrice sottolinea come queste modalità sono lo strumento che “apre lo spazio agli uomini e lo chiude alle donne: lo spazio per parlare, per essere ascoltate, per avere dei diritti, per partecipare, per essere rispettate, per essere una persona umana completa e libera. “

gli spazi che vogliono essere femministi dovrebbero creare per le donne luoghi di mondi appartenenti dove si possa narrare la proprie verità.

Il concetto di spazio che si chiude per le donne e la guerra che viene combattuta contro di noi per sottrarci mondo e verità, però in un momento non mi ha aperto più soltanto visioni di eventi visti e rivisti nel quotidiano che riguardano la grave disparità di potere tra i generi, mi ha aperto una visione sulla miseria femminile.
Di questo vorrei parlare, dire che gli spazi che vogliono essere femministi dovrebbero creare per le donne luoghi di mondi appartenenti, e non luoghi da vedersi sottratti ancora una volta, ambienti dove si possa narrare la proprie verità e non di verità negate ad alcune, ed ancor meno luoghi in cui difendersi dal rischio di essere relegate ancora una volta nel silenzio, cancellate.

Solnit afferma che quando le donne vengono quotidianamente minate nella loro credibilità, che quando le donne vengono convinte che comunque non saranno non solo credute ma nemmeno ascoltate, ne viene minata la sopravvivenza anche materiale, in quel momento leggendo, ho provato una fitta.
Il pensiero è andato a quando alcune impongono una chiusura ad altre donne nei luoghi di donne (reali e simbolici), quei luoghi sono spazi faticosamente aperti alle parole delle donne da altre donne che non si sono arrese all’ineluttabilità del silenzio, per loro e per tutte, sono luoghi di sopravvivenza. Dovremmo avere più rispetto per questi spazi. Significherebbe avere rispetto per noi e per le altre, e questo può realizzarsi solo nel riconoscimento dell’altra.
Non riconoscere questo significa alimentare l’oppressione di genere, contribuire all’indebolimento delle donne, perchè nei fatti si dice ancora una volta a delle donne che il mondo non gli appartiene, nemmeno quello che credevano di poter abitare, che non esiste un al di fuori del patriarcato.

Sgomitare, mistificare, mettere in ombra l’altra, ricercare ossessivamente la propria visibilità sopra le altre, mostrando anche i muscoli, fanno parte delle dinamiche della ricerca di sguardo maschile su di se, dinamiche che molte donne attuano tutti i giorni fuori dal femminismo e sulle quali riflettiamo da qualche decennio.
Lo sguardo maschile può essere anche quello degli occhi delle istituzioni, dei partiti, del mondo accademico ecc ecc.
Uno dei problemi dello sguardo maschile, è che ti degnerà di attenzione solo se ti adegui ai suoi bisogni, nella migliore delle ipotesi ti concederà il ruolo di prediletta (ovviamente sempre sostituibile), ma niente di più.
Non sto negando l’importanza delle donne nelle varie istituzioni o l’importanza di donne eccellenti in ogni settore, sto parlando di chi all’interno del movimento delle donne non ha come riferimento l’altra ma l’altro al di fuori, l’altra diventa pertanto uno strumento per fuori e non il soggetto con cui si dialoga.
Chi oscura l’altra in questi termini, lo fa per un ruolo subalterno, bisogna dirglelo, e bisogna dire che nessuna liberazione, e nessun diritto per le donne può passare dal silenziamento e dalla cancellazione di un’altra donna.

Serve riconoscere che ognuna ha libertà d’ espressione e pensiero, ed è indispensabile trovare un’etica del conflitto

Questo non significa assolutamente evitare conflitti, abolire le critiche, nemmeno evitare divisioni e darsi all’ubbidienza.
Significa esattamente il contrario: riconoscere che ognuna ha libertà d’espressione e pensiero, ma che è indispensabile un’etica del conflitto.
Il femminismo ha bisogno che noi donne inventiamo nuovi modi confliggere, non che andiamo d’accordo sempre e cmq.
C’è bisogno di osare la disobbedienza, non di sostituire un’obbedienza con un’altra obbedienza.

Amare la rabbia e coltivare parole indipendenti sono pratiche femministe, mentre la cancellazione dell’altra è una pratica patriarcale che come tale lo avvantaggia, indebolendo tutte le donne anche quelle che la mettono in atto.